Sarà l’inconscia nostalgia dei bei tempi asburgici di Franz Joseph, sarà che da quelle parti ci sembra sempre che la gente sia molto più incline di noi a vivere sorridendo, ma appena possiamo scappare dalla nostra (comunque amata) Lombardia per fare una capatina nel Serenissimo Veneto, noi siamo contenti come dei diciassettenni che aspettano la gita di classe per limonare con le compagne in pullman. Ragion per cui, quando Jacopo e Zuc sono stati invitati a Schiavon, hanno accettato ancor prima di sapere di cosa si trattasse. Hanno fatto bene, ovviamente, anche perché in realtà l’evento era ghiotto: la presentazione di uno dei (pochissimi) single malt italiani, prodotto e commercializzato da un’azienda che sta a buon diritto nel gotha eccellentissimo della grappa italiana, ovvero Poli.
I nostri due reporter si sono dunque recati nel Vicentino, ospiti di Poli, per assistere alla distillazione, fare la conoscenza del primo whisky “made in Veneto” ed assaggiare qualche campione di botte. Il che – converrete con noi – dà molta più soddisfazione delle pomiciate alle superiori. O forse siamo solo tutti diventati più vecchi, chissà. Accompagnati da Jacopo Poli, che con i fratelli gestisce un’azienda attiva fin dal 1898, dalla moglie Cristina, dall’efficientissima ufficio stampa Lorna e da tutta la grande famiglia allargata della distilleria e dello shop, se la sono spassata e ora fanno il santo piacere di raccontarci com’è andata, che qui siamo tutti curiosi.
Non è che Schiavon somigli molto alle Highlands: niente laghi, niente cornamuse, niente salmone nel regno del baccalà. Tra l’altro, a dirla tutta, la zona del Bassanese batte Islay, Skye e lo Speyside 6-0, 6-0 sia nell’enogastronomia sia nel pil. Eppure, appena arrivati alla distilleria Poli, che sorge alla periferia di un paesino di duemila abitanti a pochi km da Marostica, l’idea che qui si distilli single malt non sembra neanche strampalata. D’altronde, tralasciando gli opachi tentativi di produrre imbevibile whisky autarchico durante il fascismo, in questi anni i pionieri sono stati nel Nord Est: in Alto Adige, con Puni e Psenner. Quindi si può tranquillamente distillarlo anche qui, dove ci saranno condizioni atmosferiche meno perfette, ma di sicuro c’è un tesoro di esperienza, competenza ed artigianalità. Perché questa storia del whisky fatto dai maestri grappaioli è soprattutto una storia di cultura della distillazione e amore per la tradizione.
Come al solito la prendiamo extra-extra-larga, ma stavolta condividiamo la colpa con Jacopo Poli. Che – per chi non lo sapesse – è così innamorato delle sue radici e della sua terra che se inizia a raccontare è impossibile non lasciarsi trasportare e finisci per chiederti perché non abbia mai scritto un libro, una cosa tipo i Buddenbrok. Senza addentrarci nell’albero genealogico dei Giò Batta & C., basti sapere che da fine Ottocento i suoi avi, originari dell’altipiano di Asiago, si sono stanziati qui, gestendo prima un’osteria, poi comprando un alambicco ambulante e infine aprendo una vera distilleria nella fattoria. Gli affari sono andati alla grande fino agli anni ’70, quando un incendio prima e l’avvento della grande distribuzione industriale della grappa poi hanno quasi ucciso l’azienda. Che si è ripresa grazie all’intuizione della nuova generazione, che ha iniziato a puntare su artigianalità e qualità: solo vinacce fresche, attenzione ai monovitigni, taglio di teste e code. Una restaurazione della cultura del saper fare che, come racconta Jacopo, è avvenuta anche grazie a un esempio vincente: quello del whisky scozzese.

Ed è qui che le strade di due distillati, frutti di contesti sociologici agli antipodi, si incrociano. E si spiega come mai, quarant’anni dopo quei viaggi di Jacopo e Cristina in Scozia, Poli oggi lancia sul mercato il suo single malt. Pardon, “whisky di puro malto“, che al veneto piace volare basso, inutile montarsi la testa. I punti di contatto fra la storia di chi fa grappa e di chi fa whisky sono tanti: il ruolo della ferrovia, il boom nel dopoguerra, gli incendi che devastano gli impianti, la crisi degli anni ’80, la voglia di recuperare la qualità dopo anni di ettolitri di robaccia, la curiosità per il particolare come i monovitigni o il single malt. Insomma, a parte la gradazione (i whisky a grado pieno sono di moda, le grappe vanno verso un minor tenore alcolico) hanno parecchio in comune. E mentre entriamo nella sala degli alambicchi, dove nello stesso momento sgorgano grappa di Amarone e single malt, la cosa diventa più chiara. Ed è tempo di chiarire anche a chi legge di cosa stiamo parlando. E’ tempo di spiegare cos’è il “Segretario di Stato“.

Il progetto viene da lontano, ovvero dal 2012, quando la nascita del gin Marconi 46 dimostra a Jacopo Poli che l’azienda può sperimentare con successo prodotti “eterodossi” rispetto alla grappa o al brandy. Non che si voglia fare come Grey Goose, che dimostrò al mondo che la vodka si poteva produrre (e bene) anche fuori dalla cortina di ferro, però insomma… L’anno successivo, quando il cardinale schiavonense Pietro Parolin viene nominato da Papa Francesco segretario di Stato vaticano, tutta la comunità chiede a Poli di creare qualcosa di speciale per celebrare il monsignore. E a Jacopo tornano in mente i viaggi nelle Highlands di fine anni ’80, per i quali il suo distributore di sempre (Meregalli) e Silvano Samaroli gli diedero alcune dritte. Inizia a studiare tutto: l’alambicco migliore, la selezione del lievito, la ricerca del malto, la scelta delle botti. Poi inizia la parte più complessa, ovvero quella burocratica, per avere il nulla osta di Oltretevere. Sistemata anche questa questione, a fine 2021 il primo batch di 1898 bottiglie del “Segretario di Stato” viene lanciato. E noi che siamo curiosi come cercopitechi ci siamo fatti raccontare (più o meno) tutti i segreti.
Partiamo dall’alambicco, da cui abbiamo estratto in prima persona il new make. Si chiama Athanor ed è un alambicco a bagnomaria tradizionale con due caldaie collegate a due colonne. Dal 2001 viene utilizzato per distillare frutta, vino e uva, ma per il whisky è stato modificato il duomo. La presenza della colonna fa sì che il distillato esca a una tonitruante gradazione di 72%, eppure assolutamente educato al palato. L’acqua è quella purissima che proviene dalla falda del Monte Grappa, mentre il malto d’orzo proviene dalla Francia, ed è torbato con torba scozzese. Se ne utilizzano di due tipi, uno torbato a 35 ppm e uno non torbato. La fermentazione di circa 120 ore avviene in un birrificio partner non specificato. Una volta ottenuto il new make (che detto tra noi è davvero sorprendente per struttura, con una nota grassa di scamorza affumicata e stallatico a innestarsi su un’anima zuccherina e fruttata con sentori di pane cotto nel forno a legna), si passa all’invecchiamento, ovvero “l’anima veneta“: il whisky viene diluito e imbottato a 55% in barriques di rovere francese da 220 litri, dove trascorre 5 anni, per poi concludere la maturazione in botti ex Amarone da 500 litri. Per i primi 5 anni il whisky torbato (40% del blend) e non torbato (60%) invecchiano separatamente, poi vengono uniti nei barili di Amarone. La durata del finish è un work in progress, perché come tiene a dire Jacopo “questi sono i primi passi e noi siamo alle prime armi”. Nel primo batch si è andati lunghi, quasi due anni, complice anche il nulla osta vaticano in ritardo. Nel secondo, che sarà di 3mila bottiglie, il finish sarà di un anno in botti di primo riempimento. Ma Jacopo e Andrea stanno ancora ricercando la perfezione e già sono iniziati gli esperimenti con barili di secondo riempimento, meno coprenti. Sia noi sia Claudio Riva e Davide Terziotti, che con Whisky Club Italia hanno presentato questa giornata insieme ai Poli, pensiamo sia un’ottima idea. Anche perché l’assaggio dalla botte non mente e i refill hanno sì meno intensità aromatica, ma un equilibrio tale da lasciar presagire ottimi risultati anche su maturazioni più lunghe.
Ci siamo dilungati davvero troppo, ma venire da Poli, perdersi fra il museo e la “cantina degli eroi” con le storie di chi ha lavorato qui è così interessante che forse vale la pena rimandare a lunedì le impressioni più recensorie del “Segretario”.
D’altronde non fanno così anche nelle serie tv, che ci lasciano tutti sospesi alla fine di una puntata per farci vedere la successiva? (continua…)
