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botti da orbi: exit level 3

Siamo di nuovo alle prese con i whisky che fanno venir voglia di smetterla col whisky, quelle bevute dadaiste brutte, che tra errori tecnici e sperimentalismi mal riusciti consegnano ai palati degli ignari appassionati dram traumatizzanti. Sempre con il rispetto che si deve a chi distilla e imbottiglia per lavoro, ecco le tragicomiche note di degustazione di questi mostriciattoli liquidi.

P&M Esprit de Corse Vintage (OB, 40%)
P&M è il whisky prodotto nella Distillerie L.N. Mattei sulla costa orientale della Corsica. La P sta per Pietra, il birrificio che produce la famosa birra a partire da malto e farina di castagne; M è invece per il Domaine Mavela, dove l’alambicco Holstein è stato installato nel 2000. Nel core range ci sono anche dei single malt e un blended, talvolta NAS e talvolta invecchiati 7 anni, talvolta maturati in barili ex Moscato e talvolta non si sa. Ecco, di questo non si sa niente, se non che è il batch 023886 di un’edizione limitata. C: oro. N: metalli, acidi e basi, un laboratorio di chimica in disuso in cui qualcuno ha deciso di sciogliere dei vecchi vinili con della soda caustica. Odora di cose inerti. C’è un barlume che ricorda le grappe tedesche di frutta, ma quel che spicca è una puzza di prodotti edili, solventi e acquaragia: ad ogni modo nulla che deponga a favore dell’idoneità al consumo umano. Se ci si impegna, c’è della pera e del miele, ma finisce subito. Un naso estremamente chimico e aggressivo di alcol nonostante il basso grado. Pungente, di una cattiveria gratuita. Con acqua spunta un ginepro artificiale. P: dopo l’olfatto contundente, pensavamo peggio, come Nanni Moretti quando arriva a Spinaceto in Vespa. Riesce ad essere acquoso e al tempo stesso graffiante di alcol, ma non sembra essere letale. Un filo di cereali serviti su una elegantissima assiette di legno di truciolato dell’Ikea. Caramella di miele e arancia intinta nel verderame. Di nuovo le vernici. Con l’acqua diventa amaro. F: cortissimo, legnetto di liquirizia e alcol sparso sulle polveri di un cantiere.
Si salva dalla categoria “veleno”, ma non per questo diventa accettabile come bevanda. Non ha alcun tipo di utilizzo estraneo all’edilizia, non è proponibile liscio, si disintegra allungato, sarebbe in grado di danneggiare ogni cocktail. Si spiega solo se è un mezzo della guerriglia indipendentista corsa per annientare gli usurpatori francesi. In tal caso, siamo con voi compagni di Bastia ed Ajaccio: giustizia per Yvan Colonna! Nel frattempo 63/100.
P.s. Questo gioiellino su cui il master distiller Nicolas Venturini ha pure messo la firma è stato regalato a Corrado dal fratello. Il quale, consapevole della qualità del dono, lo ha accompagnato con una frase da scolpire nella pietra: “I whisky buoni già te li compri da solo, io ti regalo dei whisky cattivi e memorabili”.

EtOH Excise call of duty (2020, OB, 43%)
Da un po’ mancavano su questi schermi gli ingegneri che tramite la tecnologia vogliono azzerare i tempi di maturazione e ottenere in pochi giorni le note che un whisky di norma impiega anni in botte a sviluppare. L’ultimo viene dalla Danimarca, si chiama Tobias Emil Jensen e in realtà è un chimico, che nel 2017 ha iniziato la sua ricerca. Che lo ha portato – grazie a temperature elevate, estrazione ad ultrasuoni, catalizzazione (qualunque cosa significhi, forse ci ha infilato delle marmitte catalitiche…), micro-ossigenazione e (ab)uso dei legni – a produrre un non-whisky di 7 giorni di età. Un po’ come la pipa che non è una pipa del quadro celebre di Magritte. L’invecchiamento, anche se fa ridere chiamarlo così, è avvenuto in barili di Porto e brandy di Borgogna. C: ambrato. N: orsetti Haribo gommosi a vari gusti, con un qualcosa di origano. Sembra una bibita, una spuma bionda alcolica. Non è spiacevole, solo abbastanza finto e clamorosamente superficiale, è come se non avesse il peso specifico per essere inalato a fondo. Sciroppo di mandarino, zucchero, Alchermes. P: il naufragio dell’Essex. Manca solo il cannibalismo che ne seguì fra i superstiti… Amaro, sgraziato e artificiale, sa di carta delle caramelle gommose e vinello in bric. Non è tossico, non ti fa bestemmiare divinità multiculturali da Manitù a Shiva, ma non è nemmeno buono. Pizzica di alcol, pepe rosa, aranciata e di profumatore Ambi pur. Zuccherato. F: debole e corto, tutto sotto l’insegna araldica dell’orsetto Haribo all’arancia, simbolo di forza e ardore. O no?
Allora, ad essere sinceri tecnicamente potrebbe anche non essere classificabile come “exit level”. Spieghiamo: non è disgustoso, non è qualcosa che corri a lavarti i denti col Dixan per essere sicuro di non sentire più saporacci vari. E’ bevibile, dannatamente tenue e superficiale ma bevibile. Il motivo per cui lo infiliamo nell’inferno dei reietti è più che altro morale, perché bullarsi di poter replicare un whisky in 7 giorni è un gesto di grande hybris che intrinsecamente bolla come idioti tutti quelli che aspettano 12 anni prima di commercializzarlo. Quindi o il risultato è davvero uguale a un single malt invecchiato, oppure sei un bullo arrogante. E questo non è uguale a un single malt invecchiato, ma è un moonshine che non fa diventare ciechi e non sa di etanolo. Che per inciso ha formula chimica EtOH. 74/100.

Jiu Hai Bu Gan Tibet single malt 8 yo (2024, OB, 42%)
Ah, che belle le bandierine tibetane colorate che le anime belle appendono fuori dalle baite o dalle villette per testimoniare la vicinanza alla lotta di liberazione del popolo himalayano dal giogo di Pechino… E fa niente se dopo qualche giorno sono lerce come gli asciugamani dei gommisti perché in Pianura Padana l’aria non è esattamente pura. Insomma, siamo anche noi vicini ai monaci buddhisti e lo testimoniamo assaggiando questa… cosa, che riesce nella non semplice impresa di essere un single malt, ma non un whisky. Proviamo a spiegare: orzo maltato per 25 giorni con lieviti selvaggi, doppia distillazione e assemblaggio di distillato che ha passato fra i 7 e i 25 anni in anfore di terracotta (Jiu Hai). Poi, 36 mesi in botti di rovere francese, con l’aggiunta di alcol macerato con le bacche di Goji. Essendo solo orzo da un’unica distilleria è single malt, avendo passato solo un anno in botte non è whisky ma “barley spirit”. A noi a prima vista sembra un’aberrazione come quella del celebre film “The human centipede”, ma vogliamo così bene ai monaci tibetani che lo proviamo lo stesso. C: paglierino. N: sa di colla vinilica delle elementari e carote cotte, in sostanza è una summa olfattiva dei nostri ricordi più traumatici dell’infanzia. La parte di smalto, chimica, è spietata: arriva fino alla candeggina, ai pavimenti dei bagni dei migliori Autogrill. Col tempo un filo migliora, oppure l’uomo – che si abitua a tutto nella vita, perfino alle strade col pavé – si abitua pure a questo. Zuppa di tuberi zuccherini, daikon. La frutta è molto matura, quasi troppo: litchees, banane. Qualcosa ricorda l’odore tipico del Baijiu, quei fanghi in cui riposa il distillato cinese per antonomasia. P: è una sfida enorme. L’impatto è rivoltante nel vero senso della parola, non ci succede spesso di avere un moto di repulsione al primo sorso. Acido e dolce insieme, ma di un’acidità non vibrante e citrica, proprio di succhi gastrici. Ha le note bananose del sakè senza averne la mineralità, piuttosto sa di bucce di melone, lasciate lì. D’altronde si sa che i monaci vanno ghiotti di melone. Vaniglia e ghiacciolo al limone giallo, quello fatto con gli additivi, non con il succo. F: asprigno, dolciastro, non quel sapore che vorresti tenere in bocca per sempre…
Ammettiamo che c’è uno iato culturale incolmabile: probabilmente questo stile piacerà dalle parti di Llhasa. Ma qui è fuori da ogni canone sensoriale. Non è questione di qualità, quella non la mettiamo mai in dubbio, però l’esperienza di fruizione è davvero hard: 52/100.

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