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Lagavulin 12 yo ‘White Horse Distillers’ (anni ’70, OB, 43%)

Non occorre presentare la distilleria, che è tra le più (giustamente) famose al mondo: due parole per la bottiglia invece sì, vanno spese. Siamo negli anni ’70, e il whisky in Italia piace, piace un sacco: Carpano, oltre a produrre Vermouth, importa nel belpaese il 12 anni ufficiale di Lagavulin (proprietà White Horse Distillers) – siamo nella prima metà degli anni ’70, e si capisce perché le scritte in basso sono in rosso, non in grigio, come accadrà nelle ultime versioni di quest’etichetta prima di passare, all’alba degli anni ’80, all’etichetta color crema con le scritte in verde. Questa bottiglia è storia: nel 1965 in distilleria hanno smesso il riscaldamento a fuoco diretto degli alambicchi, e qui con ogni probabilità abbiamo a che fare con distillato precedente a quella data. Insomma, abbassiamo tutti gli occhi, apriamo le narici, incominciamo il viaggio.

Lagavulin-12-y.o.-White-Horse-Carpano-Import-e1430913261743N: spaventosa complessità, anche perché non pare aver perso neanche un po’, nei 40 anni passati in bottiglia, del suo spettro aromatico originale (anche se beh, ovviamente non lo sapremo mai). Difficile far ordine tra le suggestioni simultanee, ma proviamoci. Molto salmastro, quasi salino, proprio; manca, di Islay, il fumo poderoso, ma si avverte solo un che di polvere da sparo, di fumighé blando ma intenso e acre (smog?, ma lievissimo… Splendido paradosso!). Poi si entra in un bello spettacolo ‘zuccherino, con carruba, liquirizia, prugne secche, pan di Spagna imbevuto, cioccolato (siamo eretici, ma diciamolo: ricorda, questa nota, la Fiesta…). Tutto ciò, però, è come schermato da incantevoli e inebrianti note sporche, di cuoio, vecchi libri polverosi, foglie di tè; cera (anzi: ricorda la tela cerata, o… i Barbour!, ve li ricordate?). Spezie del legno. Chinotto. To-ta-le.

P: il corpo sembra easy, ed è molto beverino in effetti; però, quante storie raccontate in un solo dram. Grandiosa complessità!, stupefacente intensità. Attacca su quella cera unica, che è solo nei whisky vecchi (cera, cera d’api); evolve verso il dolce, il fruttato e il dolce legnoso (liquirizia salata, carruba, cachi!, mango, tarte tatin, mele caramellate…), e poi a un certo punto… Bam!, esplode un’affumicatura intensa ed elegantissima: ci ricorda nitidamente del maiale sulla brace, è fantastico. Ancora molto sapido / salino. Tè. Mamma mia…

F: un mix infinito di fumo, cera, pepe, tè zuccherato, chinotto… Persistente come un dolore alla schiena, intenso come un pugno ben assestato.

Quel che davvero ci lascia di stucco, oltre al fatto che il bicchiere è vuoto, è che questo Lagavulin era una bottiglia di consumo, da bere alla sera, parlando di Democrazia Cristiana e di PCI, di guerra del Kippur, di terrorismo, della morte di Jim Morrison, di droghe psichedeliche, di tuo zio che era caduto dalla bicicletta, di quella ragazza scandalosa col caschetto e due cosce indimenticabili, di Watergate e ritiro delle truppe in Vietnam, delle bombe di Bonimba, insomma: era un whisky da bere, da consumare, non da star lì a venerare come se fosse chissà che – e lo dimostra il corpo così beverino… A noi non resta che asciugare le lacrime davanti a un mostro di intensità e di complessità, e incidere sulla pietra un 95/100. Se volete rinnovare il lutto, leggete le parole di IBR. Grazie, grazie infinite a Salvatore Mannino per il sample.

Sottofondo musicale consigliato: The Doors – Riders on The Storm.

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