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Springbank e dintorni: una serata a tutta campbeltown

Come cantava Vasco Rossi, siamo ancora qua. Dove “qua” indica la cripta di quella cattedrale del whisky che risponde al nome di Mulligan’s pub. Appuntamento in una sera di fine settembre con i ragazzi del Milano Whisky Festival e Melanie Stanger, ambassador di Springbank e della distilleria gemella Glengyle. Sul tavolo, cinque dram che non abbiamo ancora recensito e che dunque finiscono dritti dritti nella nostra collezione di tasting notes. Oggi iniziamo con i primi quattro, il quinto (la chicca della serata), ce lo teniamo per i prossimi giorni. Per chi non c’era e per chi quel giorno lì inseguiva una sua chimera (e dopo Vasco ora citiamo pure Fossati), vi basti sapere che Melanie e Samuel Cesana – dell’importatore Beija Flor – hanno snocciolato un bel po’ di aneddoti e curiosità.
In ordine sparso:
Hazelburn era una distilleria delle oltre 40 presenti a Campbeltown, e il suo nome è stato acquistato per definire quello che prima era chiamato “Springbank triple distilled” o “Springbank unpeated”;
– Hazelburn è anche la distilleria in cui lavorò Masataka Taketsuru, “padre” del single malt giapponese;
– Springbank è l’unica che malta al 100% il suo orzo;
– produce 250.000 litri l’anno e impiega cento dipendenti, tutto ciò in un paese di 6mila abitanti;
– il maltaggio dura 8/10 giorni e l’orzo va girato ogni 4 ore;
– in distilleria non esiste un solo computer, tanto che recentemente gli invitati a un matrimonio fra un dipendente e la moglie, dopo la visita hanno chiesto se il sito in realtà non fosse un museo: tutto sembra tranne che un sito produttivo attivo;
– Longrow è nato nel 1973 come “imitazione dello stile di Islay”, tanto che inizialmente mettevano perfino la torba nell’alambicco. Produzione sospesa già nel 1974 e ripresa solo negli anni ’90;
– quest’estate si è spento a 92 anni Hedley G. Wright, proprietario del gruppo J&A Mitchell, che riunisce i tre brand Springbank, Hazelburn e Longrow, la distilleria Glengyle di Kilkerran e l’etichetta indipendente Cadenhead’s.
Basta così, si beva.

Hazelburn 10 yo (2023, OB, 46%)
Distillato tre volte, invecchiato in barili ex bourbon. C: vino bianco pallido. N: la freschezza pimpante di un pomeriggio di settembre. Kiwi, uva spina, anche i viticci asprigni che è tanto divertente masticare sotto i pampini di vite. C’è una splendida dimensione di acidità e dolcezza, che ricorda perfino certi frutti tropicali (ananas acerbo, litchees). Stireria, mela renetta. Da un lato emerge un senso zuccherino di glassa e zucchero a velo, dall’altro guizzi minerali e di lana bagnata. Con acqua si apre ed emerge un bel profumo di porridge caldo, con latte e vaniglia. P: un poker di frutte ammantate di cera, dalla pera alla mela, dal pompelmo alla pesca bianca. Attacca dolce e delicato, d’altronde la tripla distillazione è stata scelta per levigare gli spigoli. Poi vira al secco: pepe bianco, albedo amarognolo, zenzero e un’ombra di sapidità. Diluito, si fa più cremosino. F: salino, pulito, con litchees, vaniglia e legno. E un curioso tocco di jalapeno.
Che bell’inizio, che pulizia e piacevolezza. Sarà che stiamo invecchiando, ma questo genere di whisky ci piace sempre di più. Subito altissimi coi voti, non meno di 88/100 per l’equilibrio e quelle venature minerali da panico.

Springbank 12 yo batch #24 (2023, OB, 54.1%)
Per essiccare l’orzo si utilizzano 6 ore la torba e 30 ore l’aria calda. Per l’invecchiamento, 60% barili ex bourbon e 40% ex sherry. C: rame chiaro. N: un po’ alcolico e chiuso, ma non abbastanza da non cogliere la ricchezza. Subito pan di Spagna a volontà, poi mandarino, spezie e fiammiferi. Olio di lino e quelle barrette di croccante al sesamo. Ad ogni modo, caramello e frutta secca, un naso oleoso. Le suggestioni però sono un po’ ovattate. Tè. Con due gocce d’acqua si fa più profumato: crostata al caramello e alle noci pecan. Banana. P: rispetto al naso, un passo avanti. C’è sicuramente il legno a dettare legge, con ancora il té infuso e una consistente dose di tabacco e chiodi di garofano. Lo sherry emerge meglio: marmellata di arance amare, anche un guizzo vinoso. E tanta liquirizia. Nel retrogusto ecco la torbina Springbank classica, che si fa più marcata con la diluizione. Sughero bruciato. F: cacao amaro, torbina organica, arachidi tostate salate e fondi di té umidi.
Una bella bestia, anche se non sempre obbediente. Al naso qualcosa sembra non rispondere ai comandi, l’alcol tira troppo, gli aromi arrivano tenui. In bocca migliora decisamente e trova una sua dimensione solida rispettosa del dna della distilleria nonostante l’influenza del barile: 86/100.

Kilkerran Heavily Peated batch #8 (2023, OB, 58.4%)
Unica espressione per cui non viene utilizzato orzo maltato in casa. Torbatura a 80 ppm. L’età media, non dichiarata, è di circa 5 anni. C: vino bianco. N: gelo, fumo e malessere. Nel senso che si avverte una cenere acre e un senso di inverno curioso. Aghi di pino bruciati, lime. La frutta è acida e pungente, una nota ci entra nel cervello: sidro asturiano affumicato. In generale è abbastanza inorganico, oltre alle ostriche si colgono ardesia, inchiostro, i toner della stampante… Insomma, non il naso più caldo e accogliente di sempre. Con acqua e con il tempo migliora, compare della mela verde e della salamoia. P: l’alcol e l’orzo torbato vanno di pari passo. Molto giovane, ha una dolcezza basica di torta Paradiso e di Danette al limone, ma mescolato alla cenere. Ancora la grafite e ancora quel senso di aspro. Parecchio aggressivo, forse la torba è talmente feroce da “sganciarsi” quasi dalla dolcezza del malto. Con acqua si fa più biscottoso e burroso, migliora. F: orzo dolce, creosoto e una feroce commistione di torba e una montagna di sale. Perfino qualcosa di rum agricole.
Non il più elegante della serata. Qualcuno dice che è come passare da una serata di gala a un matrimonio rom e mai paragone fu più azzeccato. E a noi Kilkerran piace di più quando non imita Octomore: 84/100.

Longrow Red 11 yo Tawny port finish (2022, OB, 57.5%)
Sette anni in botti ex bourbon, 4 in botti ex Tawny port. La serie Red prende il via da un accordo con un produttore di vino australiano che aveva chiamato la sua azienda Longrow: nessuna causa legale ovviamente, ma in cambio del nulla osta ad usare lo stesso nome, la distilleria ha chiesto alcune botti ex vino. C: rame carico e rossastro. N: bomba di frutti rossi e amarene sotto spirito, ma il tutto conservato in una cantina umidissima. Uno dei whisky più autunnali di sempre, con fogliame, Roiboos, camino spento e cuoio. Tutto umido, ovviamente. La frutta è piccola e rossa (cranberries essiccati), pesche, noci pecan e pigne. Pungente, si sente anche nitidamente della paprika affumicata. Con acqua spingono i tannini, ma si fa ottimo: pandoro al burro, con lamponi e wurstel. Una ricetta definitiva, altro che i panettoni ai pistacchi di Bronte! P: tutto ben integrato, anche se il barile è imponente e invadente. Frutta bruciata avvolta da una dolcezza di marmellata di fragole, vino rosso cotto, caramello e composta di mirtilli. Cannella, per di più. Il vino non manca, le spezie neppure (perfino del garam masala). Anche qui compare qualcosa di pungente, melograno acerbo e bucce di uva rossa. Con molta acqua si fa più morbido. F: cioccolato amaro, caffè acidino e carbone alla Granatina.
Non il nostro genere di whisky, il vino rosso e il porto non sono quasi mai sintomo di bevuta agile e godibile. Però questo Longrow è fatto bene, “spesso” in ogni sua fase. Divisivo, in parecchi l’hanno giudicato “troppo”. A noi è piaciuto: 87/100.

Sottofondo musicale consigliato: Iron Claw – Clawstrophobia

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