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Villa de varda, dalla grappa al whisky “in quota”

Forse ve lo abbiamo già detto quelle ottocento volte, ma ormai siamo pericolosamente simili ai vecchi che guardano i cantieri e ripetono continuamente i soliti tre aneddoti, quindi ce ne freghiamo e lo scriviamo ancora: non siamo esattamente il top in termini di tempestività. E così a luglio 2024 scriviamo di una cosa accaduta a ottobre 2023, perché sulle questioni serie bisogna riflettere con calma. Nella fattispecie, abbiamo avuto il piacere di presenziare alla presentazione dei nuovi whisky italiani distillati da Villa de Varda e – per due imbottigliamenti – commercializzati da Eataly. Nove mesi era la doverosa gestazione per partorire un articolo e alcune recensioni.

Vabbé, Villa de Varda è una distilleria di grappa che stimiamo assai. Non di solo whisky vive il blogger di whisky, quindi sì, ci piace la grappa, ci piace la grappa trentina e ci piace la loro grappa in particolare, che ha una morbidezza e una gentilezza di note barricate non comuni. Merito del “metodo de Varda”, che si fonda su distillazione lenta, riposo in acciaio e soprattutto utilizzo delle sole bucce come materia prima. Va beh, stiamo divagando: i de Varda sono una nobile famiglia che dal Seicento è proprietaria di vigneti nella Piana Rotaliana, a Mezzolombardo. Il capostipite della distilleria è Romedio Dolzan, oggi siamo alla sesta generazione: il cavalier Luigi e i figli Michele e Mauro, i visionari che hanno messo a terra il progetto del “whisky di montagna”.

Ed eccoci arrivati a noi, e alla nostra ossessione a base di malto. “Dopo 200 anni a fare grappa – spiegano i fratelli – non era facile buttarsi nel whisky. Quando lo abbiamo detto a papà ci ha risposto che il nonno sarebbe tornato su dalla tomba per toglierci il cognome”. Ci sta, la tradizione è importante. Eppure il nonno era un tipo geniale, uno che “sognava di far bere grappa di qualità alle donne, di rendere la grappa un distillato da degustare e non da tracannare”. Per questo nel 1951 aveva buttato il vecchio alambicco e sostituito con un costoso nuovo impianto a bagnomaria e caldaiette, pagato con la vendita dei vigneti. Un alambicco che oggi è alla base del whisky.

Le prime telefonate con i responsabili di Eataly, che cercavano un produttore per il primo whisky italiano a filiera corta e km zero, risalgono al 2018. Ci sono volute parecchie prove, discussioni e visite in distilleria, ma alla fine l’obiettivo è stato raggiunto, mantenendo sempre un punto fermo: l’utilizzo di cereali antichi coltivati in loco. Qualcosa di totalmente unico, se si considera che i “vicini” come Puni e Psenner si rivolgono a malterie tedesche, anche per evidenti necessità dettate dalle quantità. Ad ogni modo, è nato così il core range di Villa de Varda, commercializzato sotto il brand “In quota”. Ora li beviamo, li commentiamo e poi tiriamo le somme.

In Quota Mountain Rye (2023, Villa de Varda, 43.2%)
L’idea è ottima. La segale (100% del mash) è per antonomasia il cereale delle Dolomiti, quindi niente di più autentico. Invecchia per 6 anni in botti di rovere vergine. Prima release tirata in 1978 bottiglie. C: ambra. N: vivace e aromatico, l’olfatto è dominato dalle spezie, sia del legno (nocciole, olio di arachidi) sia della segale. Ci sono biscotti alla cannella, panettone con le uvette e i canditi di arancia. E anche noce moscata. In generale, ci sembra che il legno sia dominante sul distillato, alcune sensazioni morbide di vaniglia e toffee sono quelle delle grappe invecchiate. C’è però una sorta di profumo che ricorda il Gewurtztraminer, curioso. Chiude il cerchio della frutta gialla e un respiro balsamico e mentolato molto mountain e poco rye. P: anche qui la dolcezza vince, con miele di castagno e pan di Spagna vanigliato. Toffee ancora. Il corpo è un po’ debolino, la frutta rimane sui toni della pesca, pere rosse e uvetta cilena. Gianduiotto alle erbe di montagna. Col tempo di fa più amarognolo, cacao amaro, di nuovo frutta secca e agrumi canditi. Qui c’è qualche guizzo di piccantezza di segale in più, ma ancora il barile governa. F: non lungo, con cappuccino, vaniglia, limone dolce e un tocco di spezie ed erbe, che evidentemente sono un tratto distintivo.
Non è un cattivo whisky, è dolce e piacevole e quell’aria erbacea è qualcosa di nuovo nel panorama del whisky italiano. Però c’è un però: ci saremmo aspettati un profilo più centrato sul cereale che sul legno. Semplicemente per la ragione che un whisky di segale di montagna è un unicum, quindi forse quel fantastico cereale si poteva lasciare più libero di ruggire. Invece il rovere vergine ammanta tutto e un po’ limita le possibilità espressive del distillato, con l’inevitabile risultato di apparire un po’ troppo grapposo-barricatoso. Magari le prossime releases saranno più spinte su questo versante, speriamo. Intanto 80/100.

In Quota Dolomiti single malt Spruce cask finish (2023, Villa de Varda, 47.6%)
Qui passiamo al single malt, con un affinamento in botti di abete rosso della Val di Fiemme, quelli che vengono usati per i violini, ma che per la resina non vengono di solito usate dai bottai. Prima edizione da 1678 bottiglie. C: oro pallido. N: rispetto al rye è sicuramente meno dolce fin da subito. Più diretto, più centrato sul cereale. Si sente la gioventù (3 anni e mezzo di invecchiamento), con lievito di pane, noce moscata, una graziosa nota di fieno. La frutta è accennata, gialla: prugne e cedro candito. In compenso ha delle suggestioni di schnapps – l’acquavite tedesca – e di grappa di rose. Nota di merito la freschezza. P: un po’ di alcol non del tutto registrato fa da corollario alla parte balsamica che già si notava nel rye. Il problema è che poi emergono note spietate di distillato, dallo zucchero a un tocco metallico, fino alla famigerata resina che cola sull’impasto di pane. Corrado dice che è come se avessero distillato l’idea di montagna durante la villeggiatura e ci pare un’immagine degna di un Montale. La vaniglia e il nocciolo di ciliegia arrivano direttamente dal barile, come lo zenzero e il pepe; il senso di gelato alla banana dal cereale. Anche qui il corpo non è spesso. F: cortino, fresco e amarognolo, con miele, malto e bucce di nocciole. Ricola al limone.
Più whisky del precedente, più diretto e senza fronzoli, ma anche più sgraziato. Idealmente ci riconosciamo più in questo approccio, ma sensorialmente ci pare inferiore. Qui serve qualche anno di maturazione supplementare (ma non di finish): 79/100.

In Quota single malt Passito di Pantelleria finish (2023, Villa de Varda, 43.3%)
Timeo finish dolci et dona ferentes, diceva Laocoonte quando sbronzo di Ouzo metteva all’erta i troiani. Orzo di montagna, affinamento in botti di passito, 1975 bottiglie come prima edizione. C: paglierino. N: ammutolito senza una motivazione. La gradazione non è alta, eppure l’olfatto è stranamente timido. Serve molto tempo perché si socchiuda un attimo, e anche quando succede non è che proprio si squaderni il Bengodi. C’è un tocco umido abbastanza infausto, che parte dal truciolato con la colla sintetica e arriva alle… cimici! Messa così non è esattamente una cosa bella, e in effetti l’olfatto non è bello. Mandorle, ancora cioccolato bianco e torroncini all’arancia, con fiori d’arancio. Indecifrabile, ha guizzi chimici e difetti olfattivi che si alternano alla dolcezza del passito. P: il primo impatto continua su questa falsa riga amarognola e incerta, poi il passito ingrana la marcia e la dolcezza aggiusta un po’ tutto. Miele, limonata, mandorlato Balocco e torrone alle mandorle. Zenzero candito e pepe bianco a guarnire, insieme al refrain di vaniglia e canditi e uvetta. Resta anche qui quel senso di grapposità. E anche con qualche goccia d’acqua il profilo non cambia granché: è più piacevole ma anche un filo più amaro. F: carrube, zenzero e cereali al miele. Medio-lungo nonostante la dolcezza.
Gli esperimenti sono così, se funzionano sei un genio ma se non funzionano non per forza sei un pirla. Qui si è voluto osare, accostare il distillato di montagna al vino dolce del Mediterraneo, quindi non è grave se il risultato non è convincente. Per essere chiari: non è che vi venga la sensazione di cecità imminente quando lo bevete, però ci sono proprio dei difetti di equilibrio e delle ruvidezze che rendono la bevuta poco gradevole. Un 74/100 nella nostra scala.

In Quota single malt Amarone finish (2023, Villa de Varda, 44.2%)
Chiudiamo con un single malt affinato in barili di Amarone. Che come finish non ci fa meno paura del Passito, eh. 1857 le bottiglie, tre anni e mezzo di invecchiamento totale. C: paglierino carico. N: forse il meno spiritoso dei tre single malt, il cereale si sente bene e le note di barile (panettone, vaniglia, uvetta, quelle cose lì…) si amalgamano bene con quelle del finish. Biscotti alla cannella e frutti rossi. Lamponi e ribes non freschi, ma quelli essiccati che si trovano nei muesli di montagna buoni, mica le zozzerie che mangiamo a colazione noi, da 0.99 all’Eurospin. Comunque, c’è anche una discreta dose di tannini verdi, che si sposano bene con l’ormai conosciuto tocco balsamico. E un che di Palle di Mozart, le praline di marzapane e cioccolato al latte. P: sempre giovane, ma più profondo dei suoi fratellini. C’è un mare di miele di castagno e mandorle, più amare che classiche. Il vino è molto ben integrato, un senso di bucce di acini d’uva e tannini vibranti, ma mai sgradevoli ed eccessivi. I tannini si trasfigurano in spezie varie (pepe nero, cannella, stecche di liquirizia) e dolciumi leggeri. Un Natalino in tono minore. F: vira sull’amarognolo, con punte di pepe rosa e un cioccolato alla menta. Sì, il famoso balsamico di cui sopra…
Chi lo avrebbe mai detto che un finish in Amarone sarebbe stato il più convincente della compagnia? Il barile ex vino è usato con intelligenza, riempie gli spazi lasciati vuoti dalla gioventù del distillato senza aggredire il palato con badilate di astringenza, anzi aggiungendo qualche accento dolce e speziato che non guasta. Dopodiché, resta un whisky ancora nel reparto neonatale. Per noi un 81/100.

Dunque, che dire del debutto di Villa de Varda nel magico mondo del whisky? Senz’altro coraggioso e originale, con un approccio che mette l’accento sul territorio con la segale, l’orzo locale, i finish in abete rosso. Dal punto di vista del consumatore, siamo a metà del guado: si intravvedono le potenzialità, ci sono sprazzi di gradevolezza, ma – come andrebbe sempre fatto – bisogna ricordare che sono whisky italiani di 3 anni e mezzo: quindi vietato paragonarli agli Scotch single malt, semplicemente perché non possono confrontarsi per complessità ed eleganza. Sono una bevuta differente, un po’ più sperimentale, che senz’altro può valere la pena. Siamo curiosi di riassaggiarlo con 5-6 anni di invecchiamento in più.

Sottofondo musicale consigliato: Jane’s Addiction – Mountain song

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